Missione di S. Kizito (Mozambico) – Pasqua 2025 – Anno giubilare: Pellegrini di Speranza
Lo slogan giubilare della nostra Chiesa Cattolica ci invita alla speranza: “Pellegrini di Speranza”. Ed è con questo respiro che ci prepariamo a celebrare la Pasqua, ormai imminente.
Che dire?! A volte, in certe circostanze e a determinate latitudini, è
davvero difficile affermare sinceramente che si coltiva speranza.
Il verbo latino sperare deriva dalla radice spē-, che significa “tendere
verso qualcosa, desiderare, attendere con fiducia”.

Ma allora mi domando – con amarezza – che cosa attendiamo o desideriamo, qui in Mozambico, dove in questi giorni si è consumata l’ennesima esecuzione politica? Non di un ribelle stavolta, ma di un cantore della libertà.
Qui, dove il potere ha paura della voce… e uccide anche chi canta.
Spesso, anche il desiderio di sognare, sperare, costruire, viene stroncato insieme a chi tenta di alimentare un Paese e una società migliori.
E io, come cristiano: che cosa spero davvero?
Che mondo mi trovo davanti?
E ancora: che cosa nutre la capacità di sperare?
Il benessere? La pace? La cultura? La solidarietà? L’amore? La fede? La preghiera? Dio?
Oso azzardare una risposta che forse potrà creare disagio in qualcuno, ma che nasce da anni di ricerca interiore, da esperienze forti come quella vissuta a Minhawene, dal tempo a Roma, e da questi giorni qui, sulle alture del Namuli.
Attraverso la solitudine, sono stato condotto nel profondo del mio essere, dove è maturato un cambiamento spirituale che ora sussurra:
Il vero nutrimento della speranza sono io, il mio vero sé.
È lì, nel mio centro più autentico, che posso contemplare Dio, fare esperienza di Lui, lasciare che sgorghi una preghiera intima, non fatta di formule.
Nel mio vero sé mi sento ricco di ciò che sono – e quindi capace di amare, di essere solidale, di generare pace.
Il domenicano tedesco Meister Eckhart, teologo, filosofo e mistico medievale, scriveva che la visione di Dio nasce nell’anima: è attraverso di essa che Dio guarda il mondo.
I suoi scritti ci invitano a cercare Dio dentro di noi.
Una delle sue frasi più celebri è: “Prego Dio che mi liberi da Dio”, cioè da un’idea preconfezionata, statica, addomesticata del divino.
In un altro passaggio, dice: “Dio è nudo, e l’anima deve essere nuda come Dio è nudo, se vuole conoscere Dio”.
“Nudo”, in Eckhart, significa puro, essenziale. Spogliato da ogni pretesa di definizione, possesso, controllo.
Ogni volta che chiamiamo Dio con un titolo – “Padre”, ad esempio – lo stiamo già racchiudendo in una categoria umana.
Ogni preghiera fatta solo di formule è, in fondo, un modo per mettere le briglie a Dio. Ma Dio è molto di più.
Anche il gesto del segno della croce – quando nominiamo la Trinità – rischia di incasellare il Mistero, se il cuore si chiude sul dogma.
Dio si contempla e si prega nudo. E quale immagine più vera del Venerdì Santo, in cui Dio è spogliato sulla croce?
Vi consegno questa immagine del Dio nudo.
Vi prego: lasciamolo nudo.

Non ricopriamolo di definizioni teologiche, di preghiere colme di
richieste, come se fosse un commerciante di grazie.
Davanti alla croce del Dio nudo, fermiamoci in contemplazione, dentro il nostro vero sé.
Restiamo in silenzio, come Maria ai piedi della croce.
Un silenzio colmo di Mistero.
Una contemplazione che ci renda mistici del Dio nudo.
Con una certa provocazione, vi invito a liberarvi perfino dalle Via Crucis intrise di linguaggi pesanti su peccato e redenzione, per ritagliarvi uno spazio, un tempo, un luogo interiore in cui entrare nel Mistero già presente in voi.
Contemplate il Dio nudo della croce.
Spogliamoci anche noi, come Lui:
– delle immagini mentali,
– delle emozioni precostituite,
– delle formule e definizioni…
Lasciamolo manifestarsi nella sua totalità, nel suo Mistero, dentro di noi. Il silenzio interiore sarà il luogo più vero dell’incontro con Dio.
Eckhart scrive anche: “Se l’unica preghiera che dirai nella tua vita sarà ‘grazie’, sarà sufficiente.”
Che questa sia l’unica parola che ci salga alla gola il Venerdì Santo, davanti al Crocifisso.
Se sapremo restare in quella contemplazione “nuda”, allora faremo già esperienza di risurrezione nel Venerdì Santo, come ci insegna il Quarto Vangelo:
“Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.” (Gv 12,32).
Per Giovanni, infatti, la risurrezione non comincia la mattina di Pasqua, ma sulla croce.
Pasqua è ogni volta che facciamo esperienza del Mistero dentro di noi.
Lo stesso accade a Maria Maddalena: vede il Risorto, ma non lo riconosce subito.
“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo.” (Gv 20,15).
Non sono gli occhi del corpo a farle riconoscere il Risorto, ma quelli del suo vero sé.
Solo quando la sua esperienza diventa personale, intima, incarnata… allora sì, può dire:
“Ho visto il Signore.” (Gv 20,18)
Non lo ha visto fuori, ma dentro.
La vera risurrezione non sarà mai la Veglia Pasquale in pompa magna.
Non sarà l’incenso, né i canti solenni.
Sarà quella che vivremo dentro di noi.
Posso studiare tutte le definizioni dell’acqua, la formula chimica, le sue caratteristiche fisiche… Ma non saprò mai cos’è davvero l’acqua, finché non mi butterò dentro.
Ho bisogno di fare esperienza di Dio.
Se anche noi, il giorno di Pasqua, vogliamo esclamare con verità:
“Ho visto il Signore!”,
allora dobbiamo aver vissuto un tempo e uno spazio di nudità interiore.

Lì avremo contemplato il Dio nudo, spogliato dagli schemi religiosi,
ma vivo e presente in noi.
Allora sì, sarà davvero Pasqua.
E avremo fatto esperienza di Risurrezione.
In quel momento, saremo testimoni della Speranza.
Quella vera, quella dei risorti.
Una speranza che si può vivere ad ogni latitudine, in ogni contesto sociale.
Apriamoci al silenzio del Mistero, che in questi giorni si disvela nudo davanti a noi, per permetterci di entrarvi a nostra volta nudi,
e fare esperienza di risurrezione e speranza.
Vi auguro un Venerdì Santo di spogliazione,
per contemplare il Mistero del Risorto.
Buona Resurrezione!
d. Silvano