Missione diocesana di Cavá in Mozambico
Da dove iniziare? Sono così tante e eterogenee le cosa da raccontare, e tutte così difficili da riassumere in poche righe…. A voi che leggete cosa potrebbe interessare? La vita nella missione? Gli investimenti economici stranieri che stanno trasformando (in meglio o in peggio?) l’intera nostra diocesi? La febbre dell’oro che è scoppiata nella mia missione? I conflitti a fuoco scoppiati nel centro del paese da – così ce la raccontano – ex ribelli del partito Renamo dovuti allo scontento generale ed in vista delle elezioni politiche del prossimo anno? Le bellezze e le fatiche della nostra diocesi di Nacala o della missione Imaculada Conceição di Cavá?
Inizierò invece da un episodio che per giorni mi ha fatto riflettere e non poco. Mi trovavo a Cavá nella sede della missione e, come spesso accade, mi chiedono di accompagnare in ospedale a Memba, sede del distretto, una donna ammalata. Da Cavá a Memba ci sono 40 Km di sterrato, è sabato pomeriggio e sto rientrando da una messa celebrata in una comunità lontana dalla missione. Sono stanco e c’è caldo. Guido con gli occhi aperti ma con la mente addormentata che si sveglia solo quando la macchina salta su qualche buca non evitata in tempo. Dopo più di un’ora arrivo in ospedale dove lascio la donna al Pronto Soccorso. Mentre sto per ripartire dall’ospedale un uomo si avvicina e mi chiede soccorso: “Per favore padre aiutaci a riportare a casa il nostro bambino che è qui ricoverato ma non c’è più nulla da fare. E’ qui da una settimana perché è caduto nel fuoco e si è bruciato ma da stamattina è peggiorato moltissimo, sta male, molto male, morirà presto!”. Richiudo la porta della macchina su cui stavo salendo ed entro in ospedale nello stanzone adibito a pediatria. Nello stesso tempo penso tra me e me: “E’ quasi sera accidenti… sono stanco morto e il papà di quel bambino mi chiede di ritornare da dove sono venuto, Cavá! Accompagnarlo vuol dire farsi altre ore di sterrato, io pensavo di fermarmi a Memba dove la missione ha una seconda sede con uno studentato di ragazzi… non si potrà rimandare a domattina?”.
L’uomo mi conduce dal bimbo che avrà forse cinque anni ed ha un’ustione profonda all’interno delle cosce che esala un forte fetore. Le ferite sono a tratti coperte da garze sporche, ma oltre a tutto ciò il piccolo ha la lingua gonfissima fuori dalla bocca, imprigionata tra i denti che non riesce più ad aprire.
“Cos’è successo alla lingua?” chiedo alla nonna che lo assiste.
“Se l’è morsicata stamattina perché era molto agitato, con la febbre alta, ed è rimasta così. Aiutateci a portarlo a casa per favore” risponde. La sua manina intanto cerca la mia e la stringe in silenzio mentre i suoi occhioni mi attraversano l’anima. Quel bambino non parla a parole ma grida con i gesti tutto il suo dolore.
Visto che il medico non c’è, cerco un’infermiera e quando le chiedo del piccolo risponde indispettita: “Ma è ancora qui? L’abbiamo dimesso stamattina su richiesta della famiglia che vuol portarselo a casa ed infatti oggi non ha ricevuto né la medicazione e nemmeno una flebo. Ma cosa pensano di fare a casa? Non può mangiare né bere. Chi gli metterà un flebo? Stamattina ha avuto convulsioni dovute alla febbre alta e la nonna invece di collaborare aprendogli la bocca si è messa in un angolo a piangere! Il bambino non è grave, bisogna solo aprirgli quella bocca! Avanti, portatelo a casa ora!”
Cerco di mediare l’aria tesissima tra la famiglia e il personale dell’ospedale: “Per favore signora infermiera, cerchi di capire, sono persone semplici e non sanno come comportarsi in caso di convulsioni.” E cerco di convincere i familiari: “Se c’è una speranza di salvarlo è qui in ospedale. A casa morirà sicuramente”.
Per un attimo i familiari sembrano ricredersi e l’infermiera mette in atto un vano tentativo di liberargli la lingua mentre il piccolo si dimena e urla. Mi sento male! Devo uscire qualche minuto e sedermi a terra per riprendere fiato. Il caldo, la stanchezza, il fetore delle ferite e le urla di dolore di quel bimbo mi mandano in tilt la testa, pressione arteriosa compresa. Mi sento quasi collassare. Respiro fondo e rientro. Cerco di collaborare e di essere utile parlando con i famigliari. Urla, sangue, pus e ferite piene di mosche mi fanno girare di nuovo la testa in una centrifuga emotiva che mi blocca l’ossigenazione del celebro. La nonna non sopporta più le grida del bambino e chiede all’infermiera di lasciar perdere. L’infermiera rinuncia e i familiari ricominciano col solito ritornello: “A casa, a casa, a casa!”.
Lo carichiamo in macchina e durante il viaggio non riesco a dire una sola parola. I familiari parlano tra loro convintissimi di aver fatto la cosa giusta e più loro si convincono più mi sembra assurdo condannare a morte un innocente senza prestargli le cure di cui ha bisogno. La stanchezza ora è sparita e l’adrenalina fa il suo corso insieme a rabbia, sentimenti contrastanti e sconforto. Solo il tramonto rosso e infuocato di luci mi ricorda che tra poco sarà buio. Un nuovo giorno si conclude in questo continente che non finirò mai di capire, comprendere, amare e odiare per le sue crudeltà. Ancora un giorno della mia esperienza africana finisce. Poche ore prima ero in una comunità a celebrare in clima di festa, a ridere con la mia gente, ora con la stessa mia gente a sentire tutto il limite umano che in queste terre si prova. La testa corre dietro a pensieri che non riesce a codificare e controllare. Il cuore vorrebbe pompare lacrime agli occhi e tristezza sui miei lineamenti, ma faccio in modo di dominarlo e di rimanere forte per dare conforto a questa famiglia. Lo lascio nella sua capanna attorniato dai familiari tutti disposti al suo capezzale; altri nel patio ad aspettare.
Torno a casa, è notte, prendo qualcosa di caldo e vado letto cercando di sciogliere il nodo alla gola. L’indomani il caso vuole che ripassi proprio davanti a casa sua in viaggio per la missione di Alua dove annualmente si tiene un pellegrinaggio diocesano ad un santuario intitolato a “Nossa Senhora Mãe da Africa”. Fermo la macchina già carica di pellegrini per andare a vedere il piccolo la cui situazione ovviamente è peggiorata. Anche oggi cerca le mie mani ma senza avere la forza di stringerle. Faccio una proposta alla famiglia: “Potrei portarlo ad Alua. In missione c’è una suora che conosco e che lavora all’ospedale come infermiera. Parlate un momento tra voi e poi mi dite cosa ne pensate”.
Esco dalla casa sfiduciato perché non credo che accetteranno, mentre i familiari decidono immediatamente di tentare con questo nuovo ospedale. La cosa mi sorprende: avranno chiamato un curandeiro durante la notte, penso, e per questo ora sono tranquilli in coscienza e ben disposti anche verso le cure mediche. Alua si trova a circa tre ore di strada sterrata da casa sua. Mentre lo carico in macchina noto la rigidità delle sue braccia e del collo. Sarà per il male alle ferite penso. Arrivato ad Alua Carla lo assiste senza perder tempo: medica le ferite sanguinanti, gli mette una flebo per idratarlo, gli somministra un antidolorifico, gli fa un test per vedere se la febbre e le convulsioni erano dovute alla malaria e il sospetto è confermato così inizia anche a trattarlo per la malaria e lo rassicura con la sua dolcezza e competenza. Mi sembra un sogno! Per quella lingua però è necessario un chirurgo: i denti infossati han prodotto una ferita che potrebbe causare un’emorragia e va cucita da un chirurgo. Compila la cartella clinica e la richiesta di trasferimento all’ospedale di Namapa dove dovrebbe esserci il chirurgo.
Mi chiede il suo nome e realizzo in quel momento di non sapere come si chiama il bambino. Non è un caso. Il nome è la prima cosa che si chiede ad una persona che non si conosce ma, quasi fosse più facile staccarsene, io non l’avevo voluto chiedere. “Isac”, risponde la nonna.
Ripartiamo per Namapa e all’arrivo ci dicono che il chirurgo è fuori città. Dopo una buona oretta si riesce a recuperare il suo numero telefonico: arriverà in giornata ci dicono. Torno ad Alua col numero di telefono dell’infermiere per avere notizie. Alle cinque del pomeriggio il chirurgo non è ancora arrivato così torno da Carla che lo chiama. La rassicura di stare per entrare in ospedale in quel momento proprio per visitare il piccolo Isac. Rimango in attesa mentre nel santuario inizia la veglia di preghiera serale proprio in coincidenza con quella proposta dal Papa per la pace in Siria. Con fatica rimetto tutto nelle mani di Dio Padre.
Quasi alla fine della veglia mi avvicina Carla: “Ho parlato col chirurgo. E’ riuscito a sistemargli la lingua. Ha il sospetto che abbia contratto il tetano e se così fosse, non c’è più niente da fare. Ecco perché il corpo era così rigido: si sta paralizzando.”
Il mattino seguente all’alba prima dell’avvio della chiusura del pellegrinaggio torno all’ospedale. I familiari sono soddisfatti: “Anche qui, come ad Alua, il bambino è stato curato conformemente. La bocca è tornata a posto. All’ospedale di Memba eravamo entrati il venerdì pomeriggio, giorno dell’ustione e fino al lunedì successivo non l’avevano nemmeno guardato.”
Ecco allora come ha contratto il tetano. Finora i familiari non avevano detto di essere stati ignorati nell’altro ospedale. Ecco perché volevano portarlo a casa a tutti i costi ed avevano pure ragione.
Tentiamo di spiegare alla famiglia che la patologia di Isac è molto grave e che la cosa grave non sono le ustioni ma un’infezione che ha contratto in seguito. I familiari ascoltano in silenzio, ringraziano noi e ringraziano Dio delle cure che ha ricevuto.
Il medico tenta una terapia antibiotica e nei giorni successivi rimango in contatto telefonico con Carla e con l’ospedale. Dopo qualche giorno ricevo l’avviso Isac è stato trasferito a Nampula, una citta più attrezzata a oltre 250 km. Isac è stazionario, ma solo nella malattia, perché questo è il suo 4° ospedale per un totale di quasi 600 km in più le convulsioni continuano a scuoterlo e non lo lasciano per nulla “stazionario”. Ha fame e sete ma non riesce ancora a mangiare per via della ferita in bocca.
Passano pochi giorni quando mi telefona un infermiere dell’ospedale centrale di Nampula che mi comunica la morte di Isac. Automaticamente sono entrato a far parte della sua famiglia e mi viene data la notizia per primo. Con Isac abbiamo poco in comune: arriviamo da storie diverse, famiglie diverse, culture estranee, lingua differente, addirittura religione diversa, ma tra di noi c’è stata una stretta di mano che ha annullato tutto questo. Quando ricevo la notizia sono già le 2 del pomeriggio ed è troppo tardi per un viaggio così lungo. Il mattino seguente parto alle 3,30 dalla missione per riportare a casa il suo corpicino a trecento kilometri da lí, nel suo piccolo villaggio nel “mato”. Lo trovo in una cella frigorifera accatastato sopra altri cadaveri. Lo riporto alla famiglia che lo seppellisce secondo il rito mussulmano. Chissà se il desiderio di dare più dignità alla sua morte è valso a qualcosa.
Il pomeriggio di quello stesso giorno quando arrivo a Cavá trovo fuori di casa un’altra famiglia che mi chiede di portare il figlio in ospedale per una grave infezione agli occhi… Non c’è tempo per far decantare quanto ho appena vissuto. Isac è già a riposare nella nuda terra e ora si ricomincia! Avanti! Altri Isac incroceranno la mia strada senza che io possa fare qualcosa di utile ma forse la mia presenza silenziosa servirà a qualcosa…
Davvero se non si riesce a rivolgere lo sguardo verso Qualcosa di più grande, tutto perderebbe di senso.
Un abbraccio fraterno
Don Silvano Daldosso, prete Fidei Donum